RITANNA ARMENI “IL SECONDO PIANO”

Il racconto dell’atto di coraggio e di audacia con cui, in una Roma occupata dai nazisti, un gruppo di suore francescane mise a rischio la propria vita per salvare alcune famiglie ebree
Ne parla a Cocooners Ritanna Armeni
Ci sono le storie che tutti conoscono. E poi ci sono quelle meno note, ma non per questo poco meritevoli di essere raccontate e di diventare, a loro volta, conosciute. Capita che queste storie cerchino, in una qualche maniera magica, il narratore che voglia farsi carico – cosa che, al netto della patina negativa che questa locuzione sembra nascondere, è da intendersi nella sua accezione più luminosa – di raccontarle, sottraendole all’oblio e, al contempo, regalando loro il giusto palcoscenico tra le pagine di un romanzo. È po’ quello che è successo a Ritanna Armeni che, alla stregua di una rabdomante, ha assecondato la sua curiosità sollecitata da stralci di racconti lasciandola vagabondare tra i frammenti di una vicenda alla quale ha dato voce generosa e romanzata – ma non per questo meno vera – nel suo “Il secondo piano” (Ponte alle Grazie).
“La cosa sorprendente è stata la continua sorpresa che ha accompagnato la scoperta di qualcosa che mi era ignoto e dove la realtà, a conti fatti, quasi superava l’immaginazione” ha raccontato l’autrice, conversando con Cocooners in questa intervista.
Il perché è presto detto. Nell’ottobre del 1943 in una Roma occupata dai nazisti, tra le mura del convento di via Poggio Moiano, le suore francescane della Misericordia accolgono oltre 40 ebrei- ridotti a 13 nel romanzo per esigenze narrative – dopo il feroce rastrellamento del Ghetto. Ma mentre gli ebrei sono nascosti nel secondo piano dell’edificio, succede che i tedeschi occupino i locali del pianterreno dello stesso edificio adibendoli a infermeria e a Madre Ignazia, la superiora, non resti che fare una scelta. Quella di correre comunque il rischio di ospitare le famiglie perseguitate e di trasformare la geografia del suo convento in una scacchiera paradossale in cui il minimo contrattempo potrebbe rivelarsi fatale.
Una storia, questa, in cui la realtà si intreccia alla fantasia fino a farsi manifesto di tante altre storie che, in maniera analoga, interessarono le suore che, in una Roma strangolata dalla fame e della guerra, senza aver ricevuto nessun ordine dal Vaticano, scelsero di mettere a rischio la loro vita e di salvare quella di centinaia di migliaia di ebrei che, diversamente, non sarebbero sopravvissuti.
Queste donne che hanno fatto della modestia una ragione d’essere hanno in realtà compiuto un atto di eroismo immenso e silenzioso che è giusto che ora, anche grazie al romanzo di Ritanna Armeni, sia urlato fino ad acquistare il giusto spazio. Ne parla con Cocooners la stessa autrice capace, da sempre, di sviscerare il fondamentale ruolo delle donne, comprese quelle invisibili, nella storia e nella società.
Il ruolo svolto dai conventi per accogliere e nascondere gli ebrei durante l’occupazione nazista è stato fondamentale ma è stato raccontato poco…
In quel periodo a Roma ben 250 conventi – di cui due terzi femminili – si aprirono per accogliere disertori, perseguitati e, naturalmente, ebrei infrangendo non solo la rigidità della clausura ma, per la prima volta, creando un dialogo con persone di un’altra religione. Questo aspetto è un esempio di lungimiranza e di progressismo rispetto a quei tempi e, soprattutto, un atto compiuto senza aver ricevuto alcun ordine dall’alto che ha permesso di salvare, a guerra terminata, quasi la metà della popolazione ebraica romana. Tra le tante storie ascoltate, mi ha colpito quella di un piccolo convento non lontano dalla via Salaria di cui la superiora mi ha raccontato con dovizia di particolari la vicenda, permettendomi di leggere il diario della sua predecessora dell’epoca e accompagnandomi a vedere quel famoso secondo piano che aveva regalato una tale salvezza.
Per quale ragione le suore, contravvenendo a quanto imposto, hanno deciso di aiutare gli ebrei?
Hanno fatto questo per quel sentimento di carità che consiste nella costruzione di un rapporto con l’altro fondato sull’assoluta accoglienza. Un gesto compiuto in totale autonomia perché nessuno aveva detto loro di farlo (o di non farlo) e, soprattutto un atto di coraggio e di audacia fatto in ossequio a quella normalissima banalità del bene che ha sempre guidato le loro azioni.
Si può, secondo lei, parlare di una forma di resistenza in relazione a quanto fatto da loro?
Si può parlare assolutamente di resistenza ma intesa non in senso passivo come di consuetudine ma attivo perché mantenere nascoste delle persone ricercate e proteggersi al contempo in quel periodo esigeva una grande attività e una grandissima passione. Oltre al fatto che si trattava non di una scelta politica ma assolutamente autonoma.
Le suore possono essere definite delle femministe? E perché?
Si. Perché il femminismo si fonda in primis sulla libertà: chi più delle suore che decidono, con una scelta libera e controcorrente, di chiudersi in convento ne conosce il valore? E in nome della stessa scelta libera le suore imparano a guardare il mondo con uno sguardo femminile, lavorano senza dipendere da nessuno – ricordo che i conventi femminili non ricevono alcuno stipendio dalla Chiesa – e badano alla loro completa sussistenza mantenendosi con le più svariata attività, anche in rapporto alle epoche, fino a diventare quasi manager di loro stesse. Libertà, autonomia e lavoro: c’è già in essere la summa del femminismo.
Le sue protagoniste sono donne mai raccontate: che cosa l’ha colpita di più di quella loro storia che poi lei ha fatto sua?
Sicuramente l’audacia e la carità: io, femminista e di sinistra, ho sempre considerato la carità secondaria perché contrapposta alla giustizia sociale per poi trovarmi a comprendere che, in realtà, non è così e che non c’è alcuna contrapposizione. Dal punto di vista narrativo è stata una sfida adottare un linguaggio diverso in cui anche le parole avessero un peso differente se rapportate non solo al periodo storico ma a un altro universo, quello religioso, che imponeva anche uno sforzo di comprensione in più.
Parlando del suo cahier di donne forti, su quali poserà prossimamente la sua attenzione e, ovviamente, la sua penna?
Le storie arrivano a me in maniera del tutto casuale: spesso quando mi sto occupando di altro, mi capita di imbattermi in un qualcosa che mi attira, che comincio a seguire e che poi sostituisce la prima idea, come è successo molte volte nei miei precedenti romanzi. Detto questo, sono molto affascinata dal ‘900, un secolo nel quale ho trascorso la maggior parte della mia vita e dove è successo davvero di tutto…vedremo!
E, in attesa di scoprire che cosa ci riserverà la penna di Ritanna Armeni, vi consigliamo di leggere “Il secondo piano”!
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