La nuova longevità è sempre più soggettiva
Sentirsi anziani anzi tempo o al contrario negare l’effetto del tempo: come sempre in medio stat virtus
Gli esperti di longevità dicono che il cambio di paradigma della vecchiaia, dovuto a una vita sempre più lunga grazie soprattutto al progresso della medicina, ci porterà sempre di più ad essere “vecchi” in base alle nostre condizioni fisiche e mentali e sempre meno in base all’età. La convenzione collettiva di considerare vecchio chi ha i capelli bianchi, però, disegnata sulla base di un immaginario collettivo che associa agli stessi il bastone cioè la perdita di funzionalità, è dura a morire, come quella che associa i brufoli all’insipienza e alla pigrizia. Estremizziamo, sia intesi, ma nemmeno poi tanto. E’ quello che la cultura anglosassone definisce “ageismo”: il pregiudizio verso le età.
La percezione dell’età cambia
In realtà, la multigenerazionalità che contraddistingue questa era della longevità sta sotterraneamente sfumando proprio gli estremi, regalandoci anziani che, correndo il rischio di essere etichettati come giovanilisti, invecchiano senza cambiare mai stile di abbigliamento preferendo che questo rappresenti il loro modo di esistere piuttosto che l’età che gli corrisponde e che durante i lock-down pandemici hanno imparato velocemente a festeggiare i compleanni su zoom, e dall’altra parte ventenni più pragmatici e misurati di quanto lo fossero i loro genitori alla stessa età.
Anziani anziani o anziani contraddittori, c’è una terza via?
Tra il lusco e il brusco di questo cambiamento del ciclo di vita passato sottotraccia si polarizzano sempre di più gli “anziani” che scelgono di essere anziani appena timbrato il cartellino della pensione e quelli che invece, privilegiati da un lavoro che li appassiona, non tirano mai i remi in barca. I primi interpretano l’immaginario collettivo ereditato dal ‘900, sostituendo le sneakers con le pantofole e cercando di accomodarsi in una vita senza impegni e senza doveri come la terra promessa di tutta la carriera. Purtroppo a sentire la classe medica questo brusco passaggio da una vita lavorativa a tempo pieno a una vita sedentaria e priva di oneri lavorativi fa più male che bene. Gli effetti negativi sulla salute fisica e mentale sembrano infatti indubitabili, con l’aggravante per il sesso maschile della perdita delle relazioni esterne alla famiglia, inevitabilmente associate all’ambito professionale, al contrario delle donne che invece coltivano relazioni piuttosto differenziate: comunitarie, di vicinato, di palestra, di parentela. In compenso le donne, che spesso chiudono anticipatamente le pur risicate carriere professionali per occuparsi di anziani di famiglia, scontano con ciò, oltre a una ovvia penalizzazione dell’assegno pensionistico, anche un nuovo totalizzante impegno di caregiver.
All’altro estremo gli anziani cosiddetti attivi, quelli che invece continuano a sentirsi perfettamente a proprio agio in una vita professionalmente produttiva quando non frenetica, facendosi un vanto del non allinearsi alla paciosità oziosa dell’età avanzata. Più spesso sono lavoratori autonomi, professionisti, imprenditori che fanno un lavoro o svolgono un ruolo scelto e amato, di soddisfazione personale e reddituale. La medicina dice che non c’è niente di meglio per invecchiare bene, sempre che a questo iperattivismo si associ anche una corretta esercitazione delle proprie capacità motorie: chi dice 5.000 passi al giorno, chi 10.000, resta il fatto che, in assenza di palestra o attività sportive, è raccomandabile almeno una lunga camminata al giorno.
Quello che però sembra sfuggire a queste persone, e lo dico per stare personalmente più di qua che di là, è il rischio di logoramento. La categoria di senior che continuando a sentirsi più giovani lavorano troppo, mantenendo la stessa agenda di dieci, vent’anni prima, ignora che l’età, pur portando tanti regali tra cui esperienza e saggezza, riduce la disponibilità di energie motorie e mentali, a prescindere dall’abitudine e dalla volontà. In pratica corriamo come se avessimo ancora 40 anni ma il nostro corpo protesta come uno di 60 o 70 o 80… A volte semplicemente non lo ascoltiamo, ma alla fine arriva il conto. Che fare allora?
Ascoltare il proprio corpo per trovare la terza via
L’unica cosa che mi sento di dire senza pretendere di snaturare una parte sempre più nutrita di “anziani”, tra i quali mi annovero, che affrontano la loro longevità con curiosità e voglia di fare è ascoltare il proprio corpo. Come funziona la memoria, si accorcia o resiste, e se si accorcia non sarà perché stiamo facendo troppe cose? Come reagisce il respiro alle incombenze quotidiane, si riduce e si fa sempre più alto, praticamente clavicolare, o rimane capace di un’estensione profonda? Com’è il sonno, più leggero e superficiale o ancora sufficientemente profondo da permettere al nostro subconscio di elaborare le esperienze diurne e alle nostre cellule di rinnovarsi? Certo, la medicina, specie quella della longevità, offre integratori di vari tipi, compresi i nuovissimi nutraceutici, per pontenziare le nostre facoltà, ma non a scapito di consapevolezza e attenzione a se stessi.
Una vita che oramai sfiora sempre più spesso i 100 anni non richiede solo di disporre di buoni capitali di salute, finanze e relazioni, ma anche di assumersi responsabilità che una vita più corta di 20/30 anni, quella dei nostri nonni, non prevedeva perché non ce n’era il tempo: curarsi di sé, restare attivi cercando e trovando quella capacità di conciliare necessità e aspetti di sé che tutti cerchiamo ma cui più facilmente un lavoratore senior può accedere. E’ sempre più diffuso, soprattutto in UK e nord Europa ma anche negli USA, che neo-pensionati, specie se pre-pensionati, dopo un paio d’anni dalla quiescenza tornino a un’attività in chiave di lavoro autonomo, part time, a progetto, a consulenza. Un modo per restare attivi e continuare a produrre un’integrazione di reddito, senza doversi sobbarcare responsabilità e orari di un lavoro dipendente a tempo pieno o, peggio, in carriera. Non è per tutti e nemmeno tutti dovremmo sentirci in obbligo di farlo, ma è evidente che chi può e desidera mantenersi attivo, troverebbe in questa scelta moderata il modo migliore per interpretare la nuova “vecchiaia” senza dar fondo a tutte le proprie energie.
Scegliere come invecchiare
Ciò è tanto più vero nel secondo Paese più vecchio al mondo, dove lo squilibrio tra numero di anziani e numero di giovani è tale che, per essere sostenibile, lo Stato deve cedere sempre più margini di assistenza e supporto universale, implicando l’assunzione di responsabilità individuali su ambiti che prima erano demandati a uno stato sociale ora in sofferenza. Vuol dire fare scelte consapevoli per prevenire le malattie tipiche dell’invecchiamento, vuol dire approfondire la conoscenza dei propri diritti sociali ed economici per non perderne nessuno nel marasma da azzeccagarbugli delle nostre normative. Vuol dire continuare a cercare il proprio equilibrio, rinnovandone l’inseguimento man mano che i suoi connotati cambiano con il passare del tempo. Vuol dire anche fare spazio alle nuove ambizioni, curiosità, necessità del tempo che passa, sapendo disfarsi delle priorità delle fasi di vita precedenti: lo spazio dentro di noi non è infinito e se non si fa pulizia di ciò che non è più all’ordine del giorno non ci sarà dove accogliere nuove passioni, nuove emozioni, nuove relazioni e conoscenze, tutte quelle che ci può offrire il prossimo pezzo di strada.
Foto di Zoe Holling su Unsplash
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