Come cambiano le pensioni nel 2026: si va in pensione a 64 anni e addio quota 103
Tutti in pensione a 64 anni? Al momento è una promessa, più che una realtà. Ma è anche l’obiettivo dichiarato dal governo Meloni, che definisce quella soglia “la nuova frontiera della libertà pensionistica”. Nella pratica, però, le possibilità di uscire anticipatamente dal lavoro sono oggi riservate a pochi eletti. E mentre si moltiplicano le ipotesi di riforma, crescono le incertezze per milioni di lavoratori, soprattutto i più giovani, già penalizzati da carriere frammentate e retribuzioni modeste.
Chi può già andare in pensione a 64 anni?
Attualmente, il diritto a uscire dal lavoro a 64 anni è riservato esclusivamente ai cosiddetti “contributivi puri”, cioè coloro che hanno iniziato a versare contributi a partire dal 1° gennaio 1996, rientrando così nel sistema pensionistico interamente contributivo. I requisiti? Almeno 64 anni di età, 20 anni di contributi effettivi e un assegno pensionistico mensile pari ad almeno tre volte l’assegno sociale (circa 1.616 euro lordi nel 2025).
Un po’ più flessibili le soglie per le donne con figli: 2,8 volte l’assegno sociale con un figlio, 2,6 con due o più figli. Tuttavia, dal 2030 la soglia salirà a 3,2 volte l’assegno sociale (circa 1.724 euro mensili), rendendo il traguardo ancora più difficile da raggiungere per chi ha avuto carriere discontinue, salari bassi o lunghi periodi di precarietà.
Non è tutto: anche l’età minima sarà soggetta a revisione. Dal 2027, salvo interventi correttivi, il requisito anagrafico salirà a 64 anni e 3 mesi, in base all’adeguamento alla speranza di vita.
Una misura targata Fornero, ma resa più rigida dal governo Meloni
Quella che oggi è la pensione anticipata contributiva nasce nel 2012 con la riforma Fornero. All’epoca, bastavano 64 anni, 20 di contributi e un assegno pari a 2,8 volte l’assegno sociale. Il governo Meloni non solo ha confermato il meccanismo, ma lo ha irrigidito: la soglia è stata alzata a 3 volte l’assegno sociale (e 3,2 dal 2030), e sono stati introdotti paletti più severi per chi cumula la pensione con la previdenza complementare: almeno 25 anni di contributi oggi, che diventeranno 30 dal 2030.
A complicare ulteriormente l’uscita anticipata c’è un altro limite introdotto dal 2024: chi va in pensione con questa formula non può ricevere più di cinque volte il trattamento minimo Inps (circa 3.017 euro lordi al mese nel 2025) fino al compimento dei 67 anni, soglia ordinaria della pensione di vecchiaia. Una misura che penalizza chi ha avuto carriere lunghe e retribuzioni medio-alte.
Previdenza complementare e Tfr: strumenti di sostegno, ma per pochi
Per ampliare la platea dei beneficiari, dal 2025 è stata prevista la possibilità di raggiungere la soglia minima dei 1.616 euro mensili sommando anche la rendita maturata nei fondi pensione. Tuttavia, in questo caso servono almeno 25 anni di contributi e vige un divieto di cumulo con altri redditi da lavoro, salvo che si tratti di lavoro autonomo occasionale per meno di 5.000 euro lordi all’anno.
Un’opportunità che, nei fatti, resta riservata a chi ha avuto carriere stabili e una buona capacità di risparmio. Per il sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon, una soluzione potrebbe arrivare dal cosiddetto “tesoretto” dei Tfr. L’idea è quella di destinare parte del trattamento di fine rapporto custodito dall’Inps per integrare l’assegno pensionistico e consentire così l’uscita anticipata a chi, altrimenti, non raggiungerebbe la soglia minima.
Estendere la pensione a 64 anni anche ai “misti”
La vera sfida, però, è estendere la possibilità della pensione a 64 anni anche ai lavoratori nel sistema misto, ossia coloro che hanno versato contributi prima e dopo il 1996 (ma meno di 18 anni nel sistema retributivo). Durigon lo ha confermato a Repubblica: «Stiamo valutando i costi per includere anche i misti, credo che 64 anni possano diventare la vera soglia di libertà pensionistica».
Una proposta che incontra il favore dei sindacati, preoccupati per le difficoltà di accesso alle attuali forme di prepensionamento e per le voci su un possibile congelamento dell’adeguamento annuale delle pensioni all’inflazione, meccanismo essenziale per tutelare il potere d’acquisto, soprattutto per chi ha assegni bassi o medi.
Il nodo della Quota 103 e le nuove ipotesi
Mentre il Governo prepara la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (DEF), attesa per settembre, si fa strada l’ipotesi che la Quota 103 (che consente l’uscita con 64 anni di età e 41 di contributi) non verrà prorogata oltre il 2025. Il motivo? È stata utilizzata da pochi, anche a causa delle penalizzazioni sul calcolo dell’assegno e delle restrizioni imposte.
Tra le nuove ipotesi sul tavolo c’è una Quota 41 flessibile, che permetterebbe il pensionamento con 62 anni di età e 41 di contributi, ma con una penalizzazione economica sull’assegno. Un’altra opzione allo studio è una formula 64+25, già introdotta per i contributivi puri, ma che potrebbe essere estesa ad altri profili assicurativi, pur mantenendo il ricalcolo interamente contributivo.
L’orizzonte del 2026: qual è il futuro delle pensioni?
Il 2026 potrebbe rappresentare un punto di svolta. Con la prossima Legge di Bilancio, il governo dovrà decidere se avviare finalmente una riforma strutturale delle pensioni o continuare con interventi temporanei e correttivi.
Le ipotesi in discussione prevedono:
- Uscita a 64 anni con almeno 25 anni di contributi, anche per chi non è contributivo puro;
- Utilizzo di strumenti integrativi come la previdenza complementare o il Tfr per raggiungere le soglie minime richieste;
- Blocco dell’aumento automatico dell’età pensionabile previsto dal 2027 (64 anni e 3 mesi);
- Mantenimento, almeno parziale, dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione.
Ma tutto dipenderà dallo spazio di manovra fiscale: la sostenibilità dei conti pubblici, infatti, resta il vincolo principale. Se non emergeranno risorse sufficienti, è possibile che il governo debba scegliere tra flessibilità in uscita e tutela del valore degli assegni esistenti.
Quando si andrà in pensione?
L’idea di andare in pensione a 64 anni si scontra, oggi, con una realtà fatta di requisiti stringenti, tetti massimi, calcoli penalizzanti e carriere sempre più discontinue. Per molti lavoratori, in particolare i più giovani, si tratta di una chimera più che di un diritto acquisito. Le riforme annunciate potrebbero rendere il sistema più accessibile, ma serviranno decisioni politiche chiare, risorse adeguate e una visione di lungo termine.
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