“Ossi di seppia” di Eugenio Montale a 100 anni dalla pubblicazione
Quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione di Ossi di Seppia, la prima ed anche la più importante raccolta di poesie di Eugenio Montale (1896-1981), insignito, nel 1975, del premio Nobel per la Letteratura.
Per celebrare la ricorrenza sono stati organizzati vari eventi in diverse città italiane, tra cui una grande mostra a Palazzo Ducale di Genova, realizzata in collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, ed un convegno-seminario al Senato.
Questo anniversario è un’occasione per rileggere Ossi di Seppia, una raccolta di poesie, divisa in quattro sezioni: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre. L’opera rappresenta una vera rottura rispetto alla lirica tradizionale, in quanto si allontana sia dalla ricerca classica dell’armonia, sia dalla tensione romantica all’assoluto ed anche dal decadente distacco dalla realtà. In Ossi di Seppia Montale riflette la crisi esistenziale del novecento e lo fa con un linguaggio essenziale, chiaro, a volte crudo, in modo da rappresentare la realtà senza idealizzarla.
“Ossi di seppia”: significato del titolo
Gli ossi di seppia, i residui calcarei dei molluschi, abbandonati dal mare sulla spiaggia, sono la metafora dell’aridità dell’esistenza e del suo non –senso, ma anche dell’esclusione dell’uomo da una condizione di felicità e di comunione con il tutto, rappresentata simbolicamente dal mare.
Ecco perché Montale, contrariamente al panismo dannunziano, evidenzia l’isolamento dell’uomo dal mondo naturale, rappresentato dal paesaggio ligure, arido e desolato, come un osso di seppia. Lo stesso sole non è più un elemento vitale, ma è un sole che fa seccare tutto, che abbaglia (Meriggiare pallido e assorto) e che non illumina.
Immagini, come il rovente muro, i pruni, gli sterpi, i serpi, le crepe del suolo, generano un’atmosfera opprimente e desolante. Il paesaggio non è solo l’ambiente naturale, ma diventa anche simbolo della condizione dell’uomo, della sua sofferenza e della sua aridità interiore.
Il male di vivere
In Ossi di seppia la poesia è un mezzo di indagine interiore, in cui il poeta medita sul suo contrasto tra il desiderio di armonia e la realtà di sofferenza. In questa prima raccolta di poesie questo dissidio è rappresentato simbolicamente dal dualismo mare-terra.
Il mare evoca un passato idealizzato in cui il poeta si sentiva una parte del tutto, dell’infinito e dell’eterno. La vita, però, è sulla terra e con l’età adulta Montale la considera come una sorta di esilio, arido, desolato, privo di significato: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me: scrive in Forse un mattino andando in un’aria di vetro.
Questa percezione negativa genera in Montale un senso di vuoto e di disagio esistenziale che si identifica con il male di vivere, concetto cardine del suo pensiero.
Ma che cos’è il male di vivere? Il male di vivere è, per Montale, una condizione intrinseca e connaturata alla vita umana, è qualcosa che non può spiegare, ma solo descrivere. Nella sua famosa lirica, Spesso il male di vivere ho incontrato, la rappresenta con tre correlativi oggettivi ( cioè la raffigurazione di un sentimento o di un pensiero attraverso oggetti concreti): è il rivo strozzato, che fa pensare agli ostacoli che impediscono alla vita di fluire, è l’ incartocciarsi della foglia / riarsa, che allude alla mancanza di vitalità, ed è il cavallo stramazzato, che evoca le nostre sconfitte.
Il “muro” come limite
Il male di vivere è, quindi, per il poeta una condizione di sofferenza che deriva essenzialmente dall’incapacità di dare un senso all’esistenza e di star bene con se stessi, ma anche dalla consapevolezza dei limiti della vita.
In Ossi di Seppia un elemento ricorrente è il muro che simboleggia i limiti e le barriere, fisiche e psicologiche, che impediscono di raggiungere la verità ed una vita soddisfacente.
Il muro è, quindi, simbolo del limite metaforico tra il qui insignificante, caratterizzato dal male di vivere, ed un là ideale. E’ la barriera che ci impedisce di fuggire da un destino amaro e di comprendere il senso profondo della vita. Indica. infatti, l’impossibilità di ogni slancio del pensiero e della vita al di là da esso.
Già nella prima lirica, In Limine, troviamo un muro: Un rovello è di qua dall’ erto muro. Un tormento interiore, rovello, si trova di qua dal muro, si trova qui, mentre al di là c’è la speranza di una vita autentica. Man mano si procede nella lettura delle liriche si passa dallo scalcinato muro di Non chiederci la parola, il cui aggettivo evoca il disfarsi di ciò che è terreno, ad un rovente muro d’orto, inavvicinabile ed intoccabile, di Meriggiare pallido e assorto, fino ad arrivare, negli ultimi versi di questa poesia, all’immagine della muraglia (non più un semplice muro) che, avendo in cima cocci di vetro, dà l’idea di qualcosa di davvero invalicabile.
La vita dell’uomo diventa, quindi, un arido ed inutile seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia . Quella della muraglia è un’immagine potente che appare anche nella lirica Sul muro grafito ed anche qui rappresenta un limite insormontabile che impedisce il cambiamento.
La divina Indifferenza
Per Montale, mentre compone la famosa lirica che abbiamo già citato, Spesso il male di vivere ho incontrato, non c’è altro modo di raggiungere il bene, se non nell’assumere un atteggiamento di divina Indifferenza ( Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza). Questa Indifferenza, che coincide con l’atarassia di Democrito e degli stoici, consiste nel distacco emotivo dalle sofferenze e dalle passioni.
Come aveva fatto per descrivere il male di vivere, cosi per rappresentare l’Indifferenza, il poeta si serve di tre correlativi oggettivi: la statua, che fa pensare all’insensibilità, la nuvola, e il falco alto levato, che rimandano all’idea di “essere” al di sopra delle sofferenze.
E’ interessante notare il climax ascendente dei tre elementi, statua, nuvola, falco: si passa, infatti, dall’immobilità della statua al movimento della nuvola, portata dal vento, fino al movimento libero del falco, in grado di andare da solo dove vuole.
Il concetto di Indifferenza, quindi, non allude qui solo al distacco emotivo dalla sofferenza, ma fa anche pensare al bergsoniano slancio vitale che spinge ad andare oltre.
Montale, difatti, non si abbandona né alla disperazione, né all’Indifferenza, anche se, per un momento, quest’ultima gli era sembrata l’unica possibilità di salvezza. La sua accettazione dello status quo non è sinonimo di rassegnazione, ma di una presa di coscienza per poi andare oltre. Voglio trovare un senso a questa vita/ Anche se questa vita un senso non ce l’ha … / Domani è un altro giorno, arriverà: canta Vasco Rossi. E così per Montale la vita ha un significato che a noi, in quanto esseri limitati, sfugge. Da qui l’invito a non buttare in un gorgo senza fondo/ le nostre vite randage, ma a cercare la luce, perché c’è: i nostri animi arsi… si perdono nel sereno / di una certezza: la luce (Non rifugiarti nell’ombra).
La ricerca di un “varco”
Montale, allora, è alla ricerca di un “varco”, che sia una via di fuga da una esistenza insignificante e che lo possa immettere in una dimensione più vera.
Spera di scorgere una maglia rotta nella rete / che ci stringe ( In Limine) o di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene/il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità (I Limoni).
La possibilità di un “varco” viene vista anche nel paesaggio marino: sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / “più in là (Maestrale). Tutte le immagini, anche quelle più negative, rimandano ad una verità più profonda, a qualcosa che è oltre la sua apparenza. Questo più in là è il fine a cui tende la ricerca di Montale: è qualcosa che egli non vede, ma di cui sente la presenza.
Questa ricerca, però, spesso urta contro quella muraglia di cocci, simbolo del limite umano e della realtà impenetrabile e dolorosa, che gli impedisce di fuggire, per cui il “varco” rimane un’intuizione, un desiderio.
Scrive, infatti, nell’ultima strofa di Sul muro grafito: Rivedrò domani le banchine / se la muraglia e l’usata strada/ nel futuro che s’apre le mattine /sono ancorate come barche in rada. Ostacolato dalla muraglia, Montale resta sulla banchina, senza intraprendere il viaggio in mare, senza poter fuggire da una vita insignificante. Il domani, quindi, per lui sarà caratterizzato dalla solita vita: rivedrà le consuete banchine ed egli sarà “ancorato” come barche in rada, che restano lì immobili, pur essendo fatte per solcare il mare.
La sua poesia, perciò, è la testimonianza del suo continuo oscillare tra l’attesa e la delusione, tra la speranza e la sfiducia, tra il percepire improvvisamente la felicità ed il restare frustrato, vedendola sfuggire altrettanto rapidamente, come il bambino a cui fugge il pallone tra le case (in Felicità raggiunta).
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