Una parola per non morire di Sandra Bonzi e il talento degli scomparsi di Claudio Bisio

Gli autori, coppia nella vita ma separati sugli scaffali della libreria, firmano due romanzi diversi, tutti da scoprire
Moglie e marito nella vita, scrittori di generi agli opposti ma uniti da un sottile fil rouge tra gli scaffali delle librerie. Sandra Bonzi e Claudio Bisio sono i protagonisti di una primavera di brividi e sorrisi da scoprire tra le pagine dei loro due ultimi romanzi. Rispettivamente Una parola per non morire (Garzanti) per lei e Il Talento degli scomparsi (Feltrinelli) per lui, diversi nel genere, naturalmente accomunati da una fervente scrittura e da uno stile che cattura. La poliedrica coppia, sposata da oltre vent’anni, non è nuova alle imprese letterarie, anzi, nel 2008 ha anche scritto un libro a quattro mani (Doppio misto. Autobiografia di coppia non autorizzata, edito da Feltrinelli) in cui raccontava l’amore con la consueta ironia. Oggi, però, i generi nei quali si cimentano sono diametralmente agli opposti: un giallo dalle tinte soft per Bonzi, un romanzo sottilmente autobiografico dalle fascinazioni calviniane e borgesiane per Bisio, ma che finiscono con l’essere complementari e simili in molti dettagli, in primis per l’umanità dei personaggi e per quella leggerezza sana che avvolge i loro scritti. Pronti a cominciare la lettura?
Il mistero, l’ironia, la vita: il ritorno di un’eroina quotidiana fuori dagli schemi
Torna l’investigatrice per caso e giornalista agguerrita Elena Donati nel terzo capitolo delle sue avventure, accompagnata dalla bizzarra corte di familiari e amici che i lettori hanno imparato a conoscere – e ad amare – nei romanzi precedenti. Con Una parola per non morire, Sandra Bonzi conferma il suo talento nel muoversi con disinvoltura tra generi diversi: dal giallo al dramma familiare passando per una sagace commedia degli affetti. Il suo segreto è quello di saper affrontare tematiche contemporanee e profonde senza mai rinunciare a un tono leggero e ironico. E la sua protagonista, cronista determinata, madre imperfetta e donna divisa tra mille ruoli, con la solita energia caotica e irresistibile, non è da meno. Soprattutto quando si imbatte in un nuovo caso sul quale si concentrano tanto la sua attenzione che le sue speranze di rivalersi sul suo sgradevole direttore. A Milano è scomparsa misteriosamente una ragazzina e questo fatto non solo ha avuto pesanti implicazioni nella coscienza collettiva e imprevedibili risvolti lavorativi, ma anche forti propaggini personali per Elena. La quale, peraltro, è sempre più al centro di una galleria di personaggi spassosi e stravaganti, alcuni dei quali già noti ai lettori, a partire dai suoi genitori, freschi di separazione e di nuove vite, fino al marito, attratto da improbabili sogni bucolici, e ai figli adolescenti che, dimentichi degli scompigli del passato, si mostrano in odore di maturità. Il bistrot-libreria, rifugio aperto dal padre e dalla sua nuova compagna, diventa poi il nuovo epicentro delle vicende: un luogo carico di promesse, dove si intrecciano confidenze, sospetti, piccole rivelazioni e, soprattutto, molti, moltissimi libri. È qui che il romanzo costruisce il suo microcosmo, un’umanità fatta di storie minime eppure universali, raccontate con tocco leggero ma sempre empatico.

Bonzi dimostra ancora una volta una grande padronanza della narrazione, alternando diversi registri con grande agilità tanto che il ritmo serrato dell’indagine si alterna continuamente a momenti di introspezione e a scene familiari esilaranti. Il suo stile è brillante, caratterizzato da una scrittura pulita e scorrevole capace di essere incisiva nei momenti di tensione e tenera nei passaggi più intimi. L’ironia, marchio di fabbrica dell’autrice, non è mai fine a sé stessa, ma serve a smascherare ipocrisie e ad alleggerire il peso delle responsabilità quotidiane che gravano sulle spalle – soprattutto femminili- dei suoi personaggi. E anche il titolo, Una parola per non morire, è emblematico nel suo evocare il potere salvifico della narrazione, della parola detta o taciuta, e rimanda al bisogno di senso, di legami e di verità che attraversa tutto il romanzo, nonché delle parole dei libri che sono fondamentali. E non solo nella vita di tutti i giorni.
Sandra Bonzi riesce, con sensibilità e intelligenza, a creare un equilibrio raro tra suspense e umorismo, tra leggerezza e profondità. Se i colpi di scena non mancano, ciò che davvero resta è la capacità dell’autrice di restituire la vita vera, con le sue contraddizioni, i suoi slanci e le sue cadute. Una parola per non morire è un romanzo che fa ridere e commuovere, che si fa leggere tutto d’un fiato sia dagli amanti del giallo soft, sia da chi è alla ricerca di una storia ben scritta, intelligente e in grado di illuminare, con grazia, le pieghe più nascoste dell’animo umano.ù
Il talento degli scomparsi – Claudio Bisio, tra autoironia, letteratura e paradossi del successo
Leggere Il talento degli scomparsi è un po’ come ascoltare Claudio Bisio che racconta una storia un poco strampalata, a bassa voce, mentre ogni tanto si interrompe per fare una battuta o correggersi da solo con quell’umorismo che è diventato la sua cifra stilistica. Il suo romanzo d’esordio si muove proprio su questo registro, forte di una scrittura colloquiale, piena di ritmo e infarcita di riferimenti pop, improbabili ma sempre azzeccati, Paperino incluso. Il piacere di leggere Bisio sta anche in questa familiarità che scivola nella pagina. Ma c’è di più: la sua prima prova da romanziere non si adagia sulla comfort zone del personaggio pubblico ma, al contrario, diventa un esercizio letterario tutt’altro che banale, che gioca con le strutture del racconto e mescola autobiografia, invenzione e una buona dose di autoironia.
Protagonisti della storia sono Marco e Mirko, due figure agli antipodi eppure legate da un filo sottile. L’uno è un attore in declino, l’altro un perfetto anonimo – con un nome adespota, privo cioè di santo patrono – in cerca di fama. Uno parla in terza persona, l’altro in seconda; uno è un riflesso malinconico dell’autore, l’altro il suo doppio surreale, buffo e imprevedibile. L’eco di Calvino e Borges si sente, così come l’impronta di Gianni Rodari, che fa da bussola all’intero romanzo. Del resto, Bisio si diverte a costruire capitoli che iniziano come racconti autonomi per poi dissolversi nel flusso della narrazione principale, in un sottile omaggio a Se una notte d’inverno un viaggiatore, che funziona anche come elegante provocazione per il lettore che è avvisato, sottilmente, di essere pronto a lasciarsi sorprendere.

Così mentre Marco Moschini – che ricorda molto il Bisio pubblico, con alle spalle un passato da attore celebrato e un presente da comparsa in un filmaccio – è il pretesto per scavare nella memoria, nei successi effimeri e nei piccoli fallimenti quotidiani, Mirko Mazzotta, invece, è l’improbabile eroe della modernità. Privo di talento, senza santi in paradiso né in calendario, eppure destinato alla celebrità per un errore di ortografia e una catena di coincidenze grottesche, si mette al centro di una riflessione amara ma attuale ovvero che, alla fine, è sempre l’uomo senza qualità a spuntarla. Bisio evita con cura ogni slancio filosofico, ma il successo di MirkoMax diventa la caricatura perfetta della fama contemporanea, quella cioè che non premia il merito, ma che, una volta ottenuta, non ti molla più.
In mezzo, un universo narrativo caotico e godibilissimo: c’è il teatro del Piccolo, con le sfuriate di Strehler; ci sono le chat di gruppo e le app di rumori molesti; ci sono amici e animali domestici, attrici e figuranti, e una galleria di comparse che sembrano uscite dalla migliore tradizione comica. E poi c’è il cinema, che attraversa il romanzo come un controcampo costante – evocato, parodiato, reinventato. Il libro è costruito su una continua oscillazione tra realtà e finzione, pudore e schiettezza, malinconia e leggerezza. Bisio non si prende mai sul serio, ma, diversamente, prende sul serio la scrittura. Il risultato è un romanzo che diverte, sorprende e contiene un messaggio potente: anche chi scompare, chi si sente fuori scena o fuori tempo, può lasciare un segno. Basta saperlo raccontare.
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