Ungaretti: poeta e soldato sul Carso

Nell’ambito delle iniziative per GO!2025 (Gorizia, con Nova Gorica, Capitale Europea della Cultura 2025) si svolge un interessante evento multidisciplinare: Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l’anima del mondo. Poesia pittura storia.
Il progetto, ideato e curato da Marco Goldin, si articola in due mostre che si tengono a Gorizia ed a Monfalcone nello stesso periodo, dal 26 ottobre 2024 al 4 maggio 2025.
A Gorizia, nel Museo di Santa Chiara, viene raccontato Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970) nel suo doppio ruolo di poeta e soldato sul Carso durante la Prima guerra mondiale. Oltre all’installazione di un video introduttivo, sono presenti una ripubblicazione delle sue poesie, dei reperti della guerra e dei dipinti che dodici importanti pittori italiani contemporanei hanno realizzato sui luoghi del poeta sul Carso, dal Monte San Michele all’Isonzo.
A Monfalcone, invece, alla mostra, Da Boccioni a Martini. Arte nelle Venezie al tempo di Ungaretti sul Carso, ospitata nella Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, è protagonista la grande pittura italiana del periodo di Ungaretti sul Carso, con la presenza di pittori a livello nazionale ed internazionale, come Boccioni, Casorati e poi il maggiore scultore italiano del XX secolo, Arturo Martini.
Le liriche scritte da Ungaretti sul fronte del Carso
Le poesie che Ungaretti compose in trincea sul fronte carsico, tra il 22 dicembre 1915 ed il 2 ottobre 1916, sono tra le più toccanti e coinvolgenti della sua intera produzione. Formano quasi un diario in versi della terribile esperienza della guerra, come testimoniano la data ed il luogo in cui il poeta si trovava nel momento della loro stesura.
La partecipazione alla prima guerra mondiale fu un’esperienza devastante che Ungaretti rese sopportabile solo scrivendo poesie. Nel 1916 fu pubblicata la prima raccolta con il titolo Il porto Sepolto, che, però, poi, nel 1931, confluì nella raccolta L’ Allegria.
Sulla sua poesia Ungaretti scrisse nel 1963: la mia poesia è nata in realtà in trincea, la guerra improvvisamente mi ha rivelato il linguaggio. Dovevo dire in fretta, perché il tempo poteva mancare, e nel modo più tragico; in fretta dire quello che sentivo. … lo dovevo dire con poche parole. …poche parole piene di significato che rendessero pienamente la mia situazione di quel momento.
La poesia di Ungaretti, come tutta la poesia dell’Ermetismo di cui egli fu uno dei principali esponenti, è, infatti, caratterizzata, oltre che dall’essenzialità del verso, dall’importanza della parola e dalla sua forza evocativa e simbolica.
La ricerca di un nuovo linguaggio poetico ha portato alla rottura con la tradizione: sono state abolite la metrica, la sintassi, la punteggiatura. Si dava significato agli spazi bianchi, si utilizzava l’analogia, che, eliminando il nesso logico, permetteva una maggior essenzialità.
Nelle poesie di guerra di Ungaretti non c’è mai odio per il nemico, ma c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione, come scrisse il poeta stesso. La guerra è stata per lui anche l’occasione che ha fatto emergere l’autenticità della sua identità esistenziale ed il significato profondo dell’esistenza.
Ecco di seguito una rassegna e commento delle poesie più struggenti che il poeta ha scritto sul fronte carsico.
“Veglia”
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.
Veglia è una delle poesie più toccanti dell’intera produzione artistica di Ungaretti. In una trincea sul fronte del carso il poeta ha dovuto trascorrere tutta la notte accanto ad un soldato morto, che aveva il viso sfigurato dal dolore e la bocca contratta in un ghigno di sofferenza.
Inaspettatamente, proprio in quella situazione tragica, a contatto con la morte, sono emerse nel poeta una grande forza interiore e l’ amore per la vita (Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita). Lo stesso Ungaretti ci parla di un’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte.
Allo strazio il poeta ha opposto il suo silenzio (nel mio silenzio) ed alla disperazione ha reagito scrivendo lettere piene d’amore (un termine potente, soprattutto se usato in un ambito di guerra dove prevale l’odio).
“Dannazione”
Mariano, il 29 giugno 1916
Chiuso fra cose mortali
(Anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?
Sono tre versi suggestivi, che esprimono il tormento esistenziale di Ungaretti, che poi è quello di tutta l’umanità.
Nel primo verso, il poeta è consapevole dei limiti e della finitudine dell’uomo, nel secondo coinvolge il cielo stellato. Benché a noi possa sembrare eterno, anche il cielo stellato finirà.
Se l’uomo è un essere mortale ed anche chiuso fra cose mortali, perché bramo Dio? Si chiede Ungaretti.
Ecco la contraddizione dell’essere uomini: siamo consapevoli della nostra finitudine, ma nello stesso tempo aspiriamo all’ Infinito, all’Assoluto.
E’ questa, quindi, la Dannazione di Ungaretti e dell’uomo in generale (il titolo è fondamentale per la comprensione delle sue poesie): vivere condannati all’infelicità per il contrasto tra l’essere finiti, limitati ed il nostro inappagabile desiderio di eternità.
“Fratelli”
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.
Fratelli è una poesia breve. ma di grande significato, che esprime il desiderio di fratellanza in un contesto disumano, come quello della guerra.
Nel buio della notte, agitata dagli scoppi della battaglia, si incontrano due reggimenti. In un clima di forte tensione, con voce esitante, viene pronunciata la parola Fratelli.
Spuntata incredibilmente in un ambito crudele e spietato, come quello della guerra, la parola Fratelli diventa un’ involontaria rivolta. Nel pronunciarla l’uomo, che è consapevole della propria fragilità (dell’uomo presente alla sua/fragilità), si ribella e cerca conforto nella solidarietà e nella fratellanza di chi vive la sua medesima situazione. Al tempo stesso, però, questo sentimento, scaturito in un contesto inumano, diventa una rivolta anche contro la disumanizzazione che oppone gli uni conto gli altri.
Nell’ultimo verso un’improvvisa epifania trasferisce la parola, fratelli, che nel secondo verso ha precisi confini contingenti, su un piano universale ed esistenziale: da quello del soldato si passa a quello dell’uomo in generale. L’individuo, così, riscopre quel sentimento di fratellanza che rende tutti uguali e uniti, a prescindere dalla propria appartenenza.
“Sono una creatura”
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
Come questa pietra
Del S. Michele
Così fredda
Così dura
Così prosciugata
Così refrattaria
Così totalmente
Disanimata
Come questa pietra
È il mio pianto
Che non si vede
La morte
Si sconta
Vivendo.
La prima strofa della lirica è formata da una lunga similitudine, il cui secondo termine di paragone va cercato nella seconda: Come questa pietra / è il mio pianto.
La lunga descrizione della pietra carsica diventa funzionale alla rappresentazione dello stato d’animo che il poeta non avrebbe potuto facilmente trasmettere direttamente.
Paragonando, analogicamente, il proprio animo alla pietra, definita con aggettivi di significati di intensità crescente (fredda, dura, prosciugata, refrattari, disanimata), il poeta è riuscito a comunicare l’idea del suo essere pietrificato dal dolore, del suo pianto che non si vede, simbolo della durezza interiore. Anzi la pietrificazione del pianto è già una condizione di morte: Ungaretti appare come una creatura disanimata, ormai pietrificata, perché tale l’ha reso la guerra.
Anche in questa poesia, nella parte finale, Ungaretti passa dall’ esperienza personale ad una dimensione universale che coinvolge l’intera umanità.
L’affermazione finale, La morte/ Si sconta/ Vivendo, però, è alquanto enigmatica. Ad una prima lettura si potrebbe intendere che è attraverso la sofferenza che l’essere umano sconta il suo destino di morte. Ma noi, ripensando alla capacità del poeta di slanci vitali, pur in contesti di dolore, come abbiamo visto per esempio nella poesia Veglia, preferiamo intendere che La morte si riscatta Vivendo, nonostante tutto: è, quindi, la proclamazione del trionfo della vita sulla morte.
“Pellegrinaggio”
Valloncello dell’Albero Isolato, 16 agosto 1916
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia
In un luogo dove predomina il disfacimento delle persone, come fossero delle cose (come una suola), trapela una fievole speranza, grazie ad un riflettore che espande nel buio la luce, simbolo di vita. Tutto il brano si articola, così, tra la disperazione e la speranza, tra il senso di morte e lo slancio vitale.
Dopo che Ungaretti aveva trascinato (strascicato) per ore la sua carcassa nel fango, ecco che, nel momento di massimo sfinimento, è salvato dall’istinto di sopravvivenza.
Il poeta, pur nella consapevolezza di essere un uomo di pena, riconosce la sua capacità di trovare, anche nella tragedia, il coraggio di rialzarsi (ti basta un’illusione per farti coraggio) e di percepire nella nebbia dello sconforto lo spazio infinito (un mare) che gli fa ritrovare la voglia di vivere.
Il Pellegrinaggio, che dà il titolo alla poesia, è, allora, l’iter ontologico, ma anche conoscitivo, dell’uomo – Ungaretti, che, come nella poesia Veglia, attraverso l’esperienza del dolore, arriva alla conoscenza della propria fragilità, ma anche della propria capacità di reagire e di “attaccarsi” alla vita.
“San Martino del Carso”
Valloncello dell’albero isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
È il mio cuore
Il paese più straziato
Sono subito presenti immagini tragiche e devastanti: l’anafora dell’espressione Non è rimasto, che si ripete nelle prime due strofe, sottolinea la distruzione del paese e la morte dei soldati.
Il brano è strutturato, infatti, attraverso la corrispondenza tra le case ed i soldati, distrutte ed uccisi dalla guerra, ma anche attraverso continui contrasti: di San Martino del Carso Non è rimasto Che qualche Brandello di muro, mentre degli amici morti del poeta Non è rimasto/Neppure tanto, neppure un brandello del loro corpo.
Il Ma, con cui inizia la terza strofa, introduce una potente avversativa: anche se non sono rimasti neppure i brandelli dei soldati, loro, però, sono tutti nel cuore del poeta (Ma nel cuore/Nessuna croce manca), dove continuano a sopravvivere.
Nella quarta strofa prosegue il contrasto: se il paese è bombardato, è il cuore del poeta che sta peggio: È il mio cuore/Il paese più straziato, perché sono presenti tutte quelle croci (Nessuna croce manca), che non ci sono nel paese reale, distrutto dalla guerra.
Anche in questa poesia la descrizione della distruzione del paese serve ad Ungaretti per parlare del dolore del suo cuore per la perdita di tanti amici cari. In questo modo la potenza di immagini crude fa intuire la portata della sua tragedia meglio di qualunque altra parola.
La metafora cuore-paese del distico finale, comunque, introduce un elemento positivo: alla violenza della guerra si contrappone la sopravvivenza delle vittime nel ricordo di chi è rimasto.
…ma Ungaretti si è percepito come “una docile fibra /dell’universo”
Eppure Ungaretti non si è arreso, non si è abbandonato al dolore, non ha smesso di scrivere poesie, come farà Quasimodo appendendo le cetre (simboli di poesia) alle fronde dei salici.
La guerra lo ha messo a nudo, ma lo ha portato ad una maggiore consapevolezza di sé, della condizione umana e dei suoi rapporti con la natura. Ed è proprio il contato con la natura, in una breve pausa dalla guerra, che lo ha aiutato ad entrare in armonia con il creato e con se stesso ed a vivere un momento di quiete che lo ha allontanato dal tumulto della guerra.
Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato / L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un sasso: ha scritto Ungaretti in I Fiumi, una toccante poesia, composta il 16 agosto 1916 a Cotici, una località vicino a San Michele del Carso, teatro, dunque, di guerra,
Immerso nella tragedia della guerra, dove tutto è precario, Ungaretti ha trovato una speranza di salvezza connettendosi con la natura, con qualcosa che, come lo scorrere continuo dei fiumi, oppone la continuità alla distruzione della guerra. Nella continuità con la natura e con la storia Ungaretti si è percepito come una docile fibra /dell’universo, riscoprendo, quindi, una specie di armonia cosmica (Il mio supplizio /è quando/non mi credo/in armonia). Questa sensazione gli ha regalato qualche momento di rara/felicità in cui ha potuto infrancare il suo corpo ed il suo spirito stremati dalla guerra.
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