Ex docente di lettere italiane, latine e greche al liceo ed ex opinionista dell' Avvenire, attualmente mi occupo sia di problemi sociali, scrivendo libri ed articoli sulla parità di genere, sia coltivo la mia passione umanistica, pubblicando articoli e saggi di critica letteraria e di critica d’arte.
Il secolo breve, come fu definito il novecento dallo storico Eric Hobsbawm per la pluralità di avvenimenti che si sono concentrati in poco tempo, ha cambiato profondamente la storia dell’umanità.
E’ stato un secolo di grandi scoperte scientifiche e tecniche e di importanti trasformazioni economiche e sociali, ma anche di grandi tragedie, come le due guerre mondiali.
Caduto il mito, secondo cui dulce et decorum est pro patria mori, cioè è dolce e dignitoso morire per la patria, con la Seconda Guerra Mondiale, più che con la Prima, i poeti, grazie alla loro particolare sensibilità, sono riusciti a trasmettere, meglio degli storici, il senso profondo della sofferenza causata dalle atrocità della guerra.
Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura nel 1959, è uno dei più rilevanti di questi poeti.
L’orrore della guerra nella poesia di Quasimodo
Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) cominciò a scrivere poesie molto giovane. Negli anni Trenta aderì all’ermetismo. Una corrente, dallo stile oscuro, difficile da comprendere e senza alcuna finalità pratica.
Nelle opere ermetiche (Acque e terre del 1930, Oboe sommerso del 1932; Erato e Apòllion del 1936) Quasimodo ha trattato prevalentemente temi come l’esilio dalla sua amata Sicilia, la solitudine, la riflessione sulla morte e lo ha fatto con una sintassi complessa ed un lessico ricercato.
Poi scoppiò la Seconda Guerra Mondiale.
Quella tragica esperienza cambiò completamente la poetica di Quasimodo.
Si rese conto ben presto della necessità di abbandonare una poesia oscura, concentrata su se stessa, per accostarsi alla realtà storico – politica della quotidianità. Si allontanò così dai temi e dallo stile complesso dell’ermetismo e si avvicinò ai problemi sociali con un linguaggio più colloquiale.
Alcune sue poesie di questo periodo, che esamineremo, sono una testimonianza del dolore profondo che genera la guerra. E’ un dispiacere che stiamo provando anche noi, che, sgomenti, avvertiamo il fragore delle armi vicino alle nostre case, mentre ci eravamo illusi che simili catastrofi non si sarebbero più ripetute. Siamo indotti anche noi ad urlare insieme al poeta: sei ancora quello della pietra e della fionda,/ uomo del mio tempo… Hai ucciso ancora,/ come sempre, come uccisero i padri.
“Alle fronde dei salici”
Alle fronde dei salici, composta da Salvatore Quasimodo durante la Seconda Guerra Mondiale e pubblicata nel 1947, apre la raccolta Giorno dopo giorno.
In pochi versi, formati da endecasillabi sciolti, con un linguaggio essenziale e con delle immagini potenti e struggenti, il poeta ha espresso tutta la sua amarezza per le sofferenze subite dagli italiani durante l’occupazione tedesca.
E come potevano noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
Il noi iniziale è il segno della svolta poetica di Quasimodo, che, abbandonato l’io individualista, vuole trasmettere la coralità del sentimento di dolore per la tragica oppressione nazista, rievocata con la potente espressione, il piede straniero sopra il cuore.
La lunga interrogativa retorica, costituita da ben 7 versi sui 10 della poesia, si articola in un crescendo di immagini tragiche e violente, che mettono in evidenza l’assurda ed illogica crudeltà di cui è capace l’uomo. Raggiungono il culmine nella scena straziante della madre, a cui hanno crocifisso il figlio al palo del telegrafo. Questo strumento moderno rinnova l’antico supplizio della Madre di Gesù ai piedi della Croce.
Di fronte a tanto scempio e di fronte ad una realtà inaccettabile anche i poeti si arrendono impotenti. Non possono far altro che chiudersi nella protesta del silenzio ed appendere le loro cetre, simboli del canto e della poesia, alle fronde dei salici, metafore del dolore.
E’ evidente, in questi versi, l’influenza del salmo 137 della Bibbia, che narra come gli Ebrei, prigionieri in Babilonia, non potendo più cantare, abbiano appeso le loro inutili cetre ai rami dei salici.
Con il richiamo agli archetipi della religione (l’agnello, la crocifissine di Gesù, la Madonna, il salmo biblico) e con il loro accostamento ad immagini moderne, come il telegrafo (crocifisso sul palo del telegrafo) Quasimodo ha voluto elevare la situazione contingente ad una condizione paradigmatica e rappresentativa della sofferenza universale a causa delle atrocità.
“Milano, agosto 1943”
Nella poesia Milano agosto 1943, che fa parte della raccolta Giorno dopo giorno, Salvatore Quasimodo, con uno stile incisivo, con una sintassi regolare e con un linguaggio crudo e prosaico, descrivela sofferenza dei sopravvissuti ad un bombardamento che ha colpito Milano durante la Seconda Guerra Mondiale, esattamente nell’agosto del 1943.
Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta. È morta: s’è udito l’ultimo rombo sul cuore del Naviglio. E l’usignolo è caduto dall’antenna, alta sul convento, dove cantava prima del tramonto. Non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno più sete. Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: lasciateli nella terra delle loro case: la città è morta, è morta.
Il grido straziante, la città è morta/È morta, che si ripete quattro volte ( ai vv.2 e 3 ed al verso finale), non lascia ombra di dubbio e non lascia spazio alla speranza.
Testimone di quella tragedia, Quasimodo si è reso portavoce del dolore di tutti e della ferma condanna non solo di quella guerra, ma di ogni guerra e di ogni violenza. Le immagini sono decisamente coinvolgenti, forti, reali, introdotte dalla povera mano che cerca invano qualcosa nella polvere.
Alla distruzione totale segue il silenzio opprimente della morte, non interrotto da nulla, neanche dal canto dell’usignolo. Si aggiunge il senso di impotenza e la disperazione di chi si rende conto che non c’è più niente da fare, neanche seppellire i morti, ormai già sotterrati sotto le macerie delle loro case.
I superstiti sono così affranti dal dolore che non avvertono più neppure i bisogni primari: i vivi non hanno più sete. Sono poche parole che esprimono l’impossibilità di sopravvivere al dolore profondo, causato dall’efferatezza della guerra, e che avvicina gli stessivivialla morte.
Su tutto spicca quel sangue rosso (i morti, così rossi), che copre i cadaveri, simbolo dello sterminio e del dolore.
Sono poche le figure retoriche, ma particolarmente incisive, come l’apostrofe rivolta dal poeta ai sopravvissuti (Non scavate …non toccate … lasciateli), che ribadisce l’inutilità di un qualunque gesto.
Come nel precedente brano, Alle fronde dei salici, anche qui la guerra ha sospeso ogni forma di vita e, quindi, ogni attività sembra superflua: c’è solo tanto sgomento e disperazione.
“Uomo del mio tempo”
Nella poesia, Uomo del mio tempo, pubblicata nel 1947, in chiusura della raccolta Giorno dopo giorno, Quasimodo condanna ancora la violenza della guerra e si rivolge ai giovani, perché riportino la pace e la giustizia.
Uomo del mio tempo è formata da due parti: nella prima (vv. 1-13) il poeta elenca le brutalità commesse dall’uomo nel corso dei secoli.
Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, – t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace, giunta fino a te, dentro la tua giornata.
L’incipit della poesia è agghiacciante e terribilmente sconvolgente.
Ci chiama a riflettere su una terribile verità: nonostante il mutamento dei tempi, nonostante tutte le esperienze negative, l’uomo è sempre lo stesso. La sua natura istintiva e malvagia è sempre la stessa, come quando utilizzava la pietra e la fionda per uccidere (Sei ancora quello della pietra e della fionda).
Con la civiltà e con il progresso sono cambiati solo i mezzi di distruzione e di sangue: dalla fionda si è passati al carro armato (il carro di fuoco) ed agli aerei da guerra (Eri nella carlinga, cioè la parte anteriore dell’aereo). La scienza esatta e la tecnologia sono state finalizzate non al bene dell’umanità, ma per costruire strumenti di morte sempre più efficaci e più sofisticati.
Attraverso immagini di grande forza espressiva (le meridiane di morte… il carro di fuoco…ruote di tortura… persuasa allo sterminio), attraverso metafore, analogie, sinestesie ed altre possenti figure retoriche Quasimodo vuole smuovere la coscienza di chi legge.
E’ dura e categorica l’accusa del poeta contro la ferocia dell’uomo: T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali. Quel tu inchioda ciascuno di noi alle proprie responsabilità!
In poche parole, dure, raccapriccianti, il poeta manifesta la malvagità dell’uomo, che è senza amore, senza carità cristiana, la cui scienza (persuasa allo sterminio) ha l’unico scopo di compiere distruzioni spietate e totali (la durezza del termine sterminio rende efficacemente la crudeltà delle azioni umane).
Hai ucciso ancora,/ come uccisero i padri, come uccisero/gli animali: la ripetizione del verbo, uccidere, nell’arco di pochi versi, è particolarmente icastica e pungente e ribadisce la frequenza dell’azione malvagia dell’uomo. Sembra di sentire ancora l’odore del sangue e lo straziante grido di dolore di Abele, ucciso dal fratello (la ripetizione del termine “fratello”, quando il fratello disse all’altro fratello, acuisce e rende sempre più sconvolgente il concetto).
Anche l’uomo del nostro tempo uccide ancora il fratello!
Non abbiamo imparato niente dagli errori del passato! I valori di solidarietà, fratellanza, umanità sono svaniti di fronte all’egoismo, al sopruso ed alla violenza. Quasimodo, per ribadire il concetto, ricorre alla sinestesia (accostamento di due parole di due sfere sensoriali diverse), eco fredda, che accentua il sistematico ripetersi dell’omicidio in tutti i tempi.
Nella seconda parte della poesia sorge spontanea la speranza che i giovani possano interrompere questa catena di crimini, per creare una società più umana e rispettosa della dignità e dei diritti di tutti.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue Salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Non c’è salvezza per i giovani, però, se non dimenticano la cattiva eredità dei padri (Dimenticate, o figli) ed il sangue da loro versato che impregna la terra a tal punto da produrre nuvole di sangue. Le loro tombe, anziché essere venerate dai figli come altari, devono sprofondare nella cenere dell’oblio.
Con un tono appassionato Quasimodo ci offre, anche in questa poesia, un crescendo continuo di immagini crude e realistiche che si imprimono in modo indelebile nella mente di noi lettori e che dovrebbero farci riflettere e cambiare.
Rifare l’uomo è, infatti, il compito principale della poesia: sostiene Quasimodo nel suo saggio, Poesia contemporanea, del 1946.
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